L’espressione coming out è usata per indicare la decisione di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere
La decisione consapevole di voler dichiarare agli altri la propria omosessualità si definisce COMING OUT, spesso confusa con il termine outing che invece designa l’esposizione dell’omosessualità di qualcuno da parte di terze persone senza il consenso della persona interessata.
Coming out come vissuto soggettivo
In questa società è difficile riuscire ad esprimere la propria sessualità in modo libero e aperto. Sono gli stereotipi e pregiudizi sociali che costringono le persone a nascondersi, di celare a se stesse la propria identità sessuale. Ma rivelarsi prima a se stessi, quindi accettarsi, e poi rivelarsi agli altri significa libertà. Vivere in piena consapevolezza andando a testa alta. È un sentimento meraviglioso che rafforza la propria personalità, ci si sente più forti e la propria autostima aumenta perché si rinsalda.
Questo processo come dicevo avviene gradualmente, si articoli in due momenti importanti:
1. Auto-accettazione. Quindi capire la propria sessualità e sentirsi nel pieno diritto di viverla.
2. Riconoscerlo agli altri. Perché è un processo che non finisce mai? Perché ogni volta che si conoscono persone nuove bisogna decidere se rivelarsi o meno, e quindi ogni volta è un ri-scoprirsi.
Spesso viene vissuto da forte stress perché è un continuo logorio mentale, le più svariate domande si affacciano alla mente, ad esempio “Quando è il momento migliore”, “A queste persone posso dirlo? E come?”, quindi è una continua scelta.
Vediamo questi processi più da vicino
Coming out interiore: è l’accettazione della propria omosessualità. Implica il sostenere il livello di stress che questa scoperta reca all’individuo, in quanto consapevole che deve accettarsi in una società dove viene privilegiata l’eterosessualità, soprattutto in quei contesti sociali dove l’omosessualità viene considerata un’anomalia, e non una parte di sé stessi.
Dichiarazione alla società: finalmente l’individuo ha accettato e riconosciuto la sua omosessualità, ha superato la condizione di stress causato dal doversi sempre nascondere e celare sé stesso dietro ad una maschera dal forte peso emotivo, allora è pronto per dichiararsi all’esterno. Ovviamente, è un processo graduale, che non avrà mai fine, perché l’individuo decide a chi rivelarsi e come, ad esempio per ogni nuovo conoscente, sul posto di lavoro, in famiglia.
Ma le ricerche dimostrano che gli individui che arrivano a manifestare il proprio essere in modo aperto, diventano più forti e sicuri in sé stessi, quindi con effetti benefici anche sulla propria autostima.
Come fare coming out
Come fare coming out?
È un processo graduale. Le tappe vengono definite da due momenti: imprescindibile è l’auto-accettazione e poi c’è la rivelazione all’esterno.
Chi viene da me chiede: “Quando è il momento giusto? Come faccio a dirlo ai miei genitori o colleghi di lavoro?”.
Domande importanti la cui riposta implica diverse considerazioni.
Parliamo del contesto famigliare: c’è da considerare il clima di relazione, come è la qualità del dialogo tra i membri, genitori-figli-fratelli? Quali sono gli stereotipi o pregiudizi sul tema dell’omosessualità?
Una volta individuato la qualità del dialogo e il clima relazionale si lavora su quello per stabilire come abbattere i pregiudizi.
Di solito le reazioni da parte dei genitori possono essere:
rifiuto, sconforto, superamento, accettazione
accettazione immediata
non accettazione
Gli psicologi parlano di una fase chiamata superamento del lutto. Nel senso che i genitori hanno aspettative sui figli, vedono il loro matrimonio e la nascita di nipotini. Alla rivelazione del “sono gay/lesbica” i genitori devono ridimensionare questi sogni, devono accettare che potrebbero non diventare nonni, che potrebbero non vedere mai la figlia o figlio in abito da cerimonia e una grande festa come coronamento della storia d’amore.
Ecco perché quando si parla in famiglia io consiglio sempre di individuare gli stereotipi ed abbatterli uno ad uno, in questo modo si avvicinano i due punti di vista, si dimostrerà che i due mondi non sono separati, l’essere gay/lesbica non significa vivere in un “ghetto” ma è semplicemente l’espressione della sessualità.
In che modo lo psicologo aiuta?
Innanzi tutto distruggiamo le vecchie convinzioni: esser gay/lesbica NON significa essere malati, non è una malattia. Ancora oggi, soprattutto girando su internet si trovano strane associazioni che dicono che loro possono guarire i gay, l’Ordine degli Psicologi si distacca da queste associazioni, spesso nascondono le loro fobie dietro a parole molto belle, libertà, crescita, sviluppo. No, facciamo attenzione.
Lo psicologo invece aiuta le persone a capire meglio se stessi, si individuano strategie per effettuare il coming out, aiuta a dipanare dubbi sulla propria sessualità, fa chiarezza proprio sui significati.
Bisogna smettere di dividere la società in etichette “gay”, “lesbica”, “etero”, “trans” e via dicendo. Una società che si dichiara ad alto sviluppo sociale e culturale, dovrebbe lottare per riuscire a distruggere queste dicotomie che dividono il mondo in “giusto” e “sbagliato” osservando solo un punto di vista, che non rispetta la libera espressione di se stessi.
Ma giusto e sbagliato da parte di chi? Qual è la regola che dimostra che Quel e solo Quel punto di vista è giusto e l’altro è sbagliato?
Se c’è una cosa che mi ha insegnato il mio lavoro è che ci sono sempre almeno due punti di vista, dipende sempre come si affronta la situazione.
Spero con questo articolo di aver messo un po’ di ordine, e di aver dato coraggio alla libera espressione di sé stessi. Vi invito tutti a partecipare in modo attivo a questa sezione, l’obiettivo di questo sito è contribuire a dare informazioni chiare, fornire un appoggio per confrontarsi con i problemi quotidiani.
Io credo nel confronto attivo come base essenziale per la crescita personale, il punto di partenza per il cambiamento.
Quindi ringrazio tutti coloro i quali vorranno partecipare attivamente a questa sezione.
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